Remo Anzovino:
la musica come narrazione
Un dialogo con Luca Ciammarughi
LC: Oggi, sabato 17 ottobre, suonerai con il quintetto d’archi di Milano Classica una selezione di brani dai tuoi dischi in studio e dei temi più amati delle tue colonne sonore cinematografiche. Come hai scelto le musiche per questa occasione?
RA: La mia musica è sempre legata alla narrazione. Quasi tutte le musiche, in realtà, in modo più o meno esplicito. Per narrazione intendo sia la traduzione in suono delle proprie immagini e dei propri sentimenti, ovvero ciò che vediamo fuori e dentro di noi; sia un tipo di narrazione più esplicita, come quella cinematografica. Fin dall’antichità la musica ha avuto una valenza narrativa. Naturalmente, l’esempio più evidente è la musica a programma, che ha riferimenti poetici, letterari, artistici, naturalistici di vario tipo. Il mio linguaggio mira a suggerire continuamente immagini. Ma sono immagini che appartengono anche all’interiorità di chi ascolta. Io non esplicito le immagini, non do vincoli, non svelo: cerco di stimolare gli altri a creare la propria narrazione. In questa formazione di sestetto (quintetto d’archi e pianoforte) mi sono ispirato all’idea di “gioia del suonare”. So che è un’immagine piuttosto astratta, una sorta di immagine-sentimento: il divertimento di chi suona. Ho così riletto alcuni brani che si adattassero a questa texture. Quello del sestetto è un suono essenziale in quanto cameristico, ma al contempo con infinite possibilità timbriche. La formazione comprende il contrabbasso, che dà profondità. Ciò che voglio proporre è un viaggio nei sentimenti universali dell’uomo, che scandaglio nelle colonne sonore fatte per i film su Van Gogh, Frida Kahlo, Monet, Gauguin. Legherò questi soundtrack a quei brani dei miei dischi in studio che meglio si collegano all’idea che esistono dei sentimenti immutabili che attraversano tutta la storia dell’uomo, come il dolore, la gioia, il tradimento, la capacità di andare oltre la siepe. Per “siepe” intendo tutto ciò che occlude la nostra capacità di immaginazione. Per me la libertà di immaginazione è vitale.
LC: Quindi, anche se le tue musiche da film sono legate a personaggi, spesso storici, possiamo dire che esse abbiano comunque un valore in sé, ovvero vivono di vita propria anche al di fuori del contesto cinematografico.
RA: Sì. Ho avuto la grande gratificazione di vedere le mie musiche stampate in un bellissimo cofanetto Sony. I miei ultimi due lavori, a cui tengo molto, sono la colonna sonora per il film Il ladro di cardellini (regia di Carlo Luglio), con la quale ho vinto il Premio Miglior Colonna Sonora al Villammare Film Festival, e le musiche per il docu-film Pompei, di Pappi Corsicato, con Isabella Rossellini. Sono progetti in cui alla musica viene chiesto di dare un apporto significativo. Se la musica non vive di vita propria, non può dare molto al film. Ma allo stesso tempo deve legarsi a doppio filo alle immagini. Le due cose non si escludono. Il film deve “servire” le immagini, ma metto il verbo tra virgolette, perché non è una vera e propria schiavitù: la musica “per” film deve dare una sorta di terza dimensione, evitando di descrivere l’ovvio (ciò che le immagini già ci fanno vedere) e andando oltre la siepe delle immagini, magari permettendoci anche di svelare significati del film che le immagini da sole non riuscivano totalmente a evocare.
LC: Qual è il metodo per raggiungere questo obiettivo?
RA: L’ho elaborato tanti anni fa, intorno al 2002, venticinquenne, quando feci i primi commenti musicali alla Cineteca di Bologna per grandi film muti. Prima guardavo e riguardavo il film senza avere il pianoforte sotto mano, cercando di capire cosa mi evocavano le immagini. Poi spegnevo lo schermo e scrivevo la musica lontano dall’influenza stretta della visione, ma cercando di rammemorare ciò che essa aveva suscitato in me. Il cinema ha un potere maieutico fortissimo, “tira fuori” molto da noi, tocca fortemente alcune corde. Quando compongo per il cinema, io sono innanzitutto spettatore. Prima mi immergo nel film, nella sceneggiatura, nella fotografia, nell’intreccio. Il lavoro sulle musiche viene dopo, è autonomo benché influenzato dallo scavo che ho fatto sul film. Il film – se il regista è bravo – mi dà la possibilità di far nascere idee che senza quella visione non sarebbero nate. La mia gratitudine verso i registi è grande, perché senza di loro non avrei avuto certe ispirazioni, che precedono il lavoro artigianale vero e proprio, ovvero la parte tecnica. Che io scriva per me stesso o che io scriva per il cinema, cerco sempre di mettere in primo piano il gesto artistico, inteso anche come gioco: l’ideale stanza dei giocattoli, ovvero i suoni, mi permette di creare un gesto, una narrazione.
LC: A Milano Classica stiamo lavorando proprio sulla narrazione, attraverso la sinestesia, la fusione tra i diversi sensi e le varie arti. Ben venga anche il recital tradizionale; ma pensiamo che sia giunto il momento di modificare radicalmente la fruizione, perché i tempi sono cambiati. “The Classical Experience” propone infatti una maggiore interazione tra artisti e pubblico, anche nella disposizione delle sedute, non più unilateralmente frontali. Inoltre, stiamo moltiplicando gli appuntamenti in cui la musica dialoga con un’altra arte: la danza, le arti figurative, la recitazione. Cosa pensi di questo esperimento?
RA: Innanzitutto vorrei dire che questa collaborazione con Milano Classica è per me una gioia. Ero già stato qui come docente della masterclass dedicata a giovani compositori, e ho apprezzato il vostro modo di lavorare. Credo sia giusto riflettere sul fatto che certi rituali sono anacronistici. In ogni epoca, la musica cambia anche in base al mutare dei modi e dei luoghi deputati: i due aspetti sono legati a doppio filo. Di fronte a ogni musica, non è solo necessario capire il testo: occorre anche comprendere il contesto. Se prendiamo Mozart e Schumann, per esempio, ci troviamo di fronte a esigenze e a pubblici già molto diversi. E dunque anche il musicista dice qualcosa di diverso in base a coloro con cui si rapporta. Prendiamo Bach: per noi è un Monumento, ma se lo contestualizziamo nella sua epoca, capiamo che era fortemente trasgressivo. Se ascoltiamo l’Invenzione a 3 voci in fa minore, ci rendiamo conto che gli urti, le dissonanze che Bach introduce sono molto sperimentali e trasgressivi. Tornando a Milano Classica, mi piace il vostro modo di mettere al centro comunque la musica: che sia una musica del passato o dell’oggi, vi sforzate di creare un’atmosfera tale per cui l’ascoltatore può goderne con agio, senza rimanere intrappolato nel rituale. Le grandi pagine del passato ci sono necessarie perché sono capaci ancora oggi di parlarci: è per questo che le ascoltiamo, non semplicemente per il “prestigio sociale” della musica classica in sé. Ricordiamoci inoltre che, se possiamo dire che la musica è necessaria, dobbiamo ricordarci che essa dev’essere necessaria soprattutto a chi la ascolta, non solo a chi la scrive. Milano Classica sta cercando di verificare, attraverso esperienze collettive inusuali, questa necessità.
LC: Parliamo ora di rapporto fra musica e realtà. Ti sei sempre rapportato a eventi esterni all’arte stessa, mettendo spesso in primo piano dunque il valore etico e sociale della musica. Mi riferisco per esempio a 9 ottobre 1963, Suite legata alla tragedia del Vajont; a L’alba dei tram, ispirato a una figura come Pier Paolo Pasolini; e recentemente al Diario sonoro, nato in occasione del lockdown, unendo ancora una volta narrazione, musica e immagini.
RA: Penso che il proprietario di ogni musica sia il pubblico. Io mi distacco un po’ dalla concezione strettamente “autoriale” di stampo ottocentesco, che talvolta è sfociata nell’idea di un compositore chiuso in una torre d’avorio, tutto preso unicamente dall’elaborazione delle proprie idee musicali.
Prima parlavamo di interdisciplinarietà: a questo proposito, non dimentichiamoci che la prima arte con cui dobbiamo rapportarci è l’arte del vivere. Guardarsi attorno, osservare gli altri, osservare la realtà è importante per un artista che voglia sentirsi umano, ovvero parte di un Tutto. Con il lavoro sul Vajont sentivo la necessità di dare voce a un grido soffocato, legato a una delle più grandi stragi di Stato mai perpetrate. Quando Pasolini fece la sua orazione civile sul Vajont, non è che si limitò a riparlare del Vajont: ne parlò per la prima volta! Nessuno aveva avuto il coraggio di farlo. Pasolini fece il primo passo. E alla fine del discorso, disse che nessuno aveva scritto una musica per i morti del Vajont. Io abito lì vicino, e ho ancor più sentito la necessità di dare voce a quella tragedia. Pasolini, oltre che un grande uomo d’arte e di cultura, è stato un profeta. Aveva previsto il tipo di realtà e di meccanismo sociale in cui ci troviamo. Quando ho scritto L’alba dei tram ho coinvolto artisti di aree completamente diverse: c’era Danilo Rossi, prima Viola della Scala; il testo era di Giuliano Sangiorgi, e lo cantava Ermanno Giovanardi. Tutti artisti di una generazione ovviamente successiva a quella di Pasolini, che potevano intuirne la valenza profetica. In conclusione: mi piace tradurre in suono fatti, sentimenti, immagini che per me rappresentano qualcosa di forte, di necessario.
Programma
Les jours perdus (dalla colonna sonora del film Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto)
Spasimo (dall’album Viaggiatore immobile)
Cammino nella notte (dall’album Dispari)
Avec ma nymphe (dalla colonna sonora del film Le ninfee di Monet)
Sulla corda (composto per la scena dell’equilibrista per accompagnamento del film Il Circo di C. Chaplin)
I’m not leaving (dalla colonna sonora del film Da Clay ad Alì. La metamorfosi)
Following light (dalla colonna sonora del film Le ninfee di Monet)
Frida. Viva la Vida (dalla colonna sonora del film omonimo su Frida Kahlo)
En plein air (dalla colonna sonora del film Van Gogh. Tra il grano e il cielo)
Hallelujah (dall’album Nocturn)
Vincent (dalla colonna sonora del film Van Gogh. Tra il grano e il cielo)
Minuet for a whore (dalla colonna sonora del film Van Gogh. Tra il grano e il cielo)
No smile (Buster Keaton) (dall’album Vivo)
Tabù (dall’album omonimo)
Metropolitan (dall’album Tabù)
Remo Anzovino, pianoforte
Quintetto d’archi dei Solisti di Milano Classica