Musiche di Terra – Un dialogo

Siamo alla vigilia del concerto “Musiche di terra – Il suono delle radici”, con il Quartetto Indaco.
Due appassionati musicofili si incontrano e parlano del programma.

Padre Komitas in un dipinto di Mariam Harutyunyan

A: Come diceva Glenn Gould, è proprio necessario riscoprire le rarità?
B: Sai bene che Gould si riferiva a un certo tipo di romanticismo deteriore stucchevole. Ma tu cosa intendi?
A: Mi riferisco a Padre Komitas. Chi è costui?

B: Non un Carneade qualsiasi. È il più importante compositore armeno. Sia per ragioni musicali sia per ragioni socio-politiche.
A: Socio-politiche?
B: Sì. Padre Komitas fu arrestato il 24 aprile 1915 insieme ad altri 180 importanti personalità armene. Fu quello l’inizio del genocidio armeno da parte dei turchi. Una persecuzione terribile.
A: E come si salvò?
B: Fu deportato e incarcerato, ma liberato grazie all’intervento di amici scrittori e di un diplomatico americano.
A: E tutto ciò cosa c’entra con la sua musica?
B: Nella sua musica c’è un lato fortemente malinconico che sembra parlarci dell’oppressione di un popolo. Un’oppressione che ancora oggi continua, nel 2020: è in corso una terribile guerra fra Armenia e Azerbaigian. E tutto ciò avviene non lontano dai confini della Russia e dell’Unione Europea. Una ragione in più per ricordare un grande armeno.
A: E dal punto di vista musicale, qual è il legame con la sua terra?
B: È un legame fortissimo. Padre Komitas, rimasto orfano di entrambi i genitori, fu affidato alla Chiesa Armena. Nella sua musica ci sono innanzitutto gli echi di quella liturgia. Poi, però, dopo gli studi musicologici a Berlino, si concentrò sul patrimonio popolare della sua terra, che è alla base delle Miniature che ascoltiamo oggi: trascrisse circa 3000 canti e danze folkloriche.
A: Qualcosa di simile a ciò che fece Bartók, insomma.
B: Sì. Ma Komitas non aveva un registratore. In ogni caso, come Bartók, egli non fece solo un lavoro etnomusicologico di raccolta delle fonti, ma rielaborò poi anche questi materiali in maniera personale, originale.
A: I suoi studi a Berlino condizionarono la sua attività di compositore?
B: Certamente. In queste Miniature, per esempio, noi troviamo spesso forme occidentali (come la forma Lied A-B-A). A volte percepiamo una timbrica quartettistica vicina a quella del romanticismo tedesco, ma con materiali di musica popolare armena. Questa contaminazione ha un fascino unico!
A: Sto guardando le sue date. Perché nel 2019, in occasione dei 150 anni dalla nascita, se ne è parlato così poco?
B: Perché purtroppo siamo ancora troppo eurocentrici. C’è moltissima musica “classica”, se vogliamo chiamarla così, da scoprire fuori dai nostri confini.
A: Su questo ti do ragione. E soprattutto, c’è un Novecento da scoprire anche fuori dai due grandi centri, quello austro-tedesco e quello francese. Toglimi una curiosità: che fine fece Padre Komitas? Perché negli anni venti e trenta non si è parlato di lui, vista l’eccezionalità della sua musica?
B: Perché non riuscì più a riprendersi dallo choc della deportazione e del genocidio del suo popolo. Una vicenda che ricorda un po’ quella di Primo Levi. Komitas nel 1919 fu ricoverato in una clinica psichiatrica parigina. E nel 1935 morì. Oggi è sepolto nel Pantheon di Erevan, la capitale armena.
A: Il tema del dolore e della morte sono al centro anche della seconda composizione del concerto, Crisantemi di Giacomo Puccini. Qui il compositore non ha bisogno di presentazioni.
B: Direi di no. Ma non ricordo in quale occasione luttuosa Puccini scrisse questa pagina ispirata.
A: La morte di Amedeo duca d’Aosta, figlio di Vittorio Emanuele II. Puccini, toccato dall’evento, scrisse in una sola notte questa breve ma assai densa pagina, i cui temi vengono poi ripresi nell’ultimo atto della Manon Lescaut.
B: Quando i due amanti, Manon e Des Grieux, vagano abbandonati al loro destino in una landa deserta della Louisiana?
A: Esatto, c’è un po’ questo clima di desolazione, ma anche di poesia dell’estinguersi, che ritroviamo talvolta anche nella Fanciulla del West. Puccini non concepisce la morte in maniera unilateralmente cupa, ma la avvolge nel lirismo e in un languore che ha persino qualcosa di erotico. Il binomio romantico Eros/Thanatos viene traghettato nel Novecento, con una scrittura fortemente cromatica, che nei colori strumentali evocare a tratti il mondo di Richard Strauss e Mahler.
B: Ma il tipo di cantabilità è tutta italiana!
A: Direi di sì. Il rubato è operistico, con esplicite richieste di rallentando e trattenendo tipicamente pucciniane; a volte, Puccini scrive “portando” fra una nota e l’altra, come se lo strumento imitasse un portamento vocale. Anche il tema languido della sezione centrale, “con molta espressione”, ha qualcosa di teatrale e operistico.
B: In fondo, Eros e Thanatos fanno capolino anche nell’Oración del torero di Joaquín Turina. Non dirmi che anche lui, come Komitas, non ti dice nulla!
A: In effetti è un compositore che conosco molto meno di Albéniz, Granados o Falla.

Picasso – Tauromaquia Escena ( El torero es elevado )

B: Dovresti interessartene. In Turina c’è veramente l’anima dell’Andalusia. Era un sivigliano doc. E Siviglia è la città del “duende” per eccellenza, quel non-so-che in cui Garcia Lorca leggeva il segreto dell’ispirazione: una sorta di demone artistico…
A: …che poteva appartenere a un ballerino di flamenco, a un musicista o persino a un torero!

B: E infatti in questo quartetto, nato inizialmente per quattro liuti, poi trascritto per quartetto d’archi e infine per orchestra, il protagonista è proprio un torero. È lo stesso Turina a dirci come è nata la composizione e qual è il suo significato: «In un pomeriggio di corrida nella Plaza de Madrid, quella vecchia, armoniosa e divertente piazza, ho concepito il mio lavoro. Ero nel cortile dei cavalli. Lì, dietro una piccola porta, c’era la cappella, dove i toreri venivano a pregare per un momento prima di affrontare la morte. Mi è stato offerto allora, in tutta la sua pienezza, quel contrasto soggettivamente musicale ed espressivo del rumore lontano dall’arena, del pubblico che aspettava la festa, con la devozione di chi davanti a quell’altare, povero e pieno di poesia, veniva a pregare Dio per la propria vita, forse per la propria anima, per il dolore, per l’illusione e per la speranza che forse se ne sarebbe andato per sempre in pochi istanti, in quell’arena piena di risate, musica e sole».
A: Più Spagna di così, si muore!
B: Eh sì. Però non dimentichiamoci che, come molti altri suoi connazionali, Turina aveva studiato a Parigi. La timbrica e l’armonia sono raffinatissime, lontane dalla semplicità del folclore. Se è vero che i pizzicati sembrano evocare a tratti la tecnica chitarristica flamenca del rasgueado, è anche evidente che gli insegnamenti ricevuti alla Schola Cantorum di Vincent D’Indy sono tangibili.
A: Ma questa attesa della corrida, che diviene preghiera, come si esprime musicalmente?
B: All’inizio in maniera molto inquieta e febbrile: i tremoli e i continui salti di registro sembrano esprimere la fibrillazione emotiva, l’eccitazione ma anche la paura del torero. A poco a poco, dopo un diaologo dei due violini soli, a cui si aggiunge il violoncello e poi anche la viola, la musica si fa pacificando e raggiunge, alla fine, una dimensione di luminosità estatica, che coincide probabilmente con la preghiera e il momento mistico e drammatico al contempo in cui il torero si prepara ad affrontare la morte.
A: Abbiamo evocato tante volte la Francia, e finalmente eccola con Maurice Ravel! Con lui torniamo ai Grandi Autori.
B: Vorrei farti notare che, quando scrisse il suo Quartetto per archi, a 28 anni, Ravel non era ancora così canonizzato come lo è oggi. Basti pensare al fatto che non vinse alcun Prix de Rome, o che questo Quartetto fu accolto inizialmente con scetticismo, perfino dallo stesso Fauré a cui era dedicato…
A. Ma non da parte di Debussy, che mostrò subito il suo apprezzamento!
B: Forse anche perché si accorse che Ravel aveva preso un po’ a modello il suo stesso Quartetto in sol minore.
A: Beh ma le differenze sono comunque evidenti!
B: In cosa consistono secondo te?
A: Come dice Jankélévitch, Debussy è il compositore del mistero, Ravel il compositore del segreto. Nonostante i forti contrasti emotivi, per esempio fra il rarefatto terzo movimento e l’agitato Finale, in Ravel c’è un fondo di pudore, di reticenza emotiva, che invece raramente troviamo in Debussy.
B: Il Finale però è quasi un pezzo “fauve”, selvaggio…
A: Beh non dimentichiamoci che il giovane Ravel era alla guida di un gruppo che si chiamava “gli Apaches”, giovani ribelli che si appellavano a Stravinsky o a Borodin per fare a pezzi un certo tipo di musica borghese ormai ammuffita. Eppure, anche se esteriormente Ravel voleva essere un
rivoluzionario, la sua sensibilità innata lo porta a ricercare una forma di armoniosità che sembra voler cogliere il “respiro del mondo”. Ravel è uno dei compositori più vicini alla Natura, anche se la sua musica è piena di sottili artifici.
B: Qualcuno sostiene che nello Scherzo, il secondo movimento, egli sia influenzato dalle sonorità esotiche dell’orchestra di gamelan giavanese!
A: Può essere. La sua Terra può essere Parigi, i paesi baschi o un Altrove lontanissimo. Gli elementi che troviamo in questa musica sono i più disparati: uso delle modalità antiche (come nel suo maestro Fauré!), poliritmie, polifonie preclassiche, elaborazioni motiviche originate dal grande
sonatismo ottocentesco, echi del folklore basco legato al sangue materno e molto altro ancora. Alla fine, però, è “puro Ravel”, con tutti suoi paradossi. A volte c’è l’impressione di un distacco dalle cose terrestri, subito però contraddetto da quel canto languido che ricorda il trittico di Shéhérazade: un erotismo non completamente svelato e, perciò, ancora più forte.
Luca Ciammarughi

Quartetto Indaco
Eleonora Matsuno e Ida Di Vita, violini
Jamiang Santi, viola
Cosimo Carovani, violoncello

Programma

Padre Komitas (Soghomon Gevorki Soghomonyan)
Sette miniature per quartetto d’archi su temi armeni
Giacomo Puccini 
Crisantemi
Joaquin Turina
La Oración del Torero
Maurice Ravel
Quartetto d’archi in fa maggiore