Un dialogo fra Eliana Grasso e Luca Ciammarughi
LC: Tu, Eliana, sei al contempo pianista solista e collaboratrice della Scuola di Ballo dell’Accademia del Teatro alla Scala. Raccontaci come è nato il progetto (che è anche un cd per Da Vinci Classics) “Lettres sur la danse”, a cui è seguito questo “Invito alla danza” che ci proponi oggi.
EG: Nel cd ho scelto alcuni brani di Chopin che sono stati selezionati da grandi coreografi per le loro creazioni, per dei balletti. Com’è noto, Chopin non ha mai scritto musica appositamente per la danza, ma è stato scelto e amato da grandissimo coreografi fra ‘800 e ‘900, e anche ai giorni nostri. Il mio lavoro nasce da una curiosità: come mai i danzatori e coreografi sono stati così attratti e affascinati dalla musica di Chopin, quasi in una sorta di magnetismo? Come mai alcune musiche non scritte per la danza ricorrono così di frequente in lavori di importanti coreografi? C’è però un’altra domanda, che riguarda Chopin: perché il compositore franco-polacco è così attratto dalla danza, com’è evidente dal profluvio di mazurche, polacche o valzer che scrive?
LC: Tu non ti limiti a danze, ma affronti appunto anche brani che con la danza apparentemente non hanno nulla a che vedere, ma che sono stati coreografati più volte. Penso alle Ballate. O ai Notturni e agli Studi, che suoni oggi alla Palazzina Liberty. Per le Ballate, genere teoricamente narrativo/letterario, penso a John Neumeier che coreografa la Prima, op. 23. O a John Welch che affronta la Seconda o la Quarta con lo Houston Ballet. O la Terza, coreografata da Jerome Robbins in “The Concert”. Potremmo parlare di narrazione coreografica?
EG: Sì. Il genere della Ballata in sé non ha a che fare con la danza. Ma i coreografi lo usano in momenti-chiave. Penso alla “Dama delle camelie” di Neumeier, che utilizza la Prima Ballata nel momento in cui la protagonista – pur sapendo che morirà – balla con l’uomo che ama. È un pas de deux che rappresenta l’ultimo abbraccio, l’ultimo incontro. È di una bellezza struggente: forse il momento più intenso dell’intero balletto. Nel caso di Robbins la chiave è completamente diversa, ironica: egli mette affettuosamente alla berlina il rituale del concerto. Quindi il coreografo in quel caso non amplifica il romanticismo, ma quasi lo smitizza, ci gioca in modo parodistico.
LC: Suonare per un ballerino (o una ballerina, in questo caso) un pezzo scritto originariamente per pianoforte quali differenze comporta? Ci si deve adattare alle esigenze della danza? Il pianista è meno libero? O c’è un dialogo, un accordo che permette comunque di conservare la libertà? Ma ho anche un’altra domanda: quanto la visione di quelle importanti coreografie ha modificato anche la tua visione dei brani originali?
EG: La mia interpretazione è certamente condizionata dal modo di ballare dei danzatori e dalle esigenze sceniche, quando lavoro con il balletto. Se i ballerini devono eseguire una serie di salti, per esempio, io non posso rallentare, anche se magari vorrei farlo o se la partitura originariamente lo richiede. Certo, non mi è mai capitato di stravolgere completamente una partitura di Chopin, o di un altro autore, per sottostare a una coreografia. Ma a volte bisogna raggiungere dei compromessi per la buona riuscita della nuova opera d’arte, ovvero il balletto “su musiche di”. I ballerini fanno un lavoro che richiede grandissima concentrazione e forza fisica, quindi è indispensabile comprendere le loro esigenze. Questo compromesso è in realtà bellissimo, perché si tratta di un dialogo fra pianista e ballerino, fra suono e movimento. Tale dialogo è ancora più forte se non c’è l’intermediazione di un direttore d’orchestra. Altro punto importante: i ballerini hanno un modo molto diverso dal nostro di ascoltare e memorizzare una certa musica. Spesso hanno una memoria ancora maggiore della nostra: non è inusuale che sappiano cantare intere partiture. Noi a volte ne abbiamo meno bisogno. Il loro è un apprendimento più istintivo, che noi talvolta dimentichiamo. Per contro, raramente i ballerini hanno conoscenze di solfeggio, armonia, analisi paragonabili a quelle dei musicisti. Ma il dialogo fra le metodologie e le conoscenze reciproche può produrre frutti inaspettati.
C’è un secondo aspetto su cui vorrei ragionare, a partire dalla tua domanda: qualche volta la coreografia può arricchire una musica. Alcuni coreografi, pur privi di conoscenze musicali approfondite, riescono talvolta a comprendere la natura di una composizione quasi ai livelli dei grandi musicisti e dei grandi direttori d’orchestra. Penso a Preljocaj o Neumeier. Penso a ciò che Neumeier ha fatto con la Matthäus Passion di Bach. Se noi, oltre a suono e parola, aggiungiamo anche il gesto, diamo una terza dimensione all’opera d’arte. Penso anche a “Le Parc”, il balletto di Preljocaj basato sul Concerto K 488 di Mozart. Preljocaj dà una chiave di lettura nuova a Mozart, come potrebbe darla un interprete musicale. Non dico che migliori la composizione, ma arricchisce il “mito” intorno a essa, e quindi la sua fortuna postuma.
LC: Penso anche a ciò che Jiri Kilián fa nel balletto “Petite Mort”, sempre utilizzando il K 488, laddove per “piccola morte” si intende l’orgasmo. Raramente l’erotismo mozartiano, in una dimensione che è spirituale e materiale al contempo, è stato messo in luce così bene. O penso anche ai Notturni di Chopin coreografati da Neumeier, che vidi al Festival di Spoleto: quasi stravolgono il nostro modo di immaginare Chopin, ma ci spingono a riflettere su una diversa possibile visione del sentimento chopiniano, più terrestre, meno idealizzata.
EG: Certo. E voglio citare, sempre di Preljocaj, la “Winterreise” fatta recentemente, in cui c’è stata da parte del coreografo un’analisi molto raffinata del ciclo schubertiano.
LC: Tornando a Chopin, si può dire che il gesto pianistico chopiniano sia danza ancor prima di essere coreografato. Ma vorrei toccare un altro punto: questo progetto apre nuove idee di sinestesia dal vivo, che noi di Milano Classica inseguiamo pervicacemente. Cosa pensi del fatto di poter ripensare il recital tradizionale mettendo il pianoforte in dialogo con altre arti, come fai oggi tu con la danza?
EG: A me è sempre piaciuto lavorare per sinestesia. Ho anche una collaborazione con un’attrice, Elena Zegna, con la quale ho messo in scena molti progetti (su Leopardi e Chopin; Alda Merini; Shakespeare). Per un musicista, dialogare con altri artisti è a priori un arricchimento importantissimo.
LC: Forse in epoca covid è doppiamente importante concepire spettacoli di questo tipo, che si basano su un dialogo intimo e che non richiedono grandi organici…
EG: Sì. Oltre a pensare ai grandi Teatri, bisogna valorizzare la musica da camera. Ovviamente questo vale in assoluto, non solo ai tempi del covid. Ma questo periodo, costringendoci a cercare soluzioni differenti dal solito, può portarci anche a smuovere una creatività sopita.
Francesca Podini, danzatrice
Eliana Grasso, pianoforte
con la partecipazione di Cosimo Carovani, violoncello
Programma
Fryderyk Chopin (1810 – 1849)
Notturno in do diesis minore opera postuma
Notturno in mi minore op. 72 n. 1
Notturno in do minore op. postuma
Studio op. 25 n. 2
Studio op 25 n. 7
Mazurka op. 17 n. 4
Mazurka op. 68. N. 2
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Sonata op. 27 n. 2
Claude Debussy
Clair de Lune (da “Suite Bergamasque”)
Giuseppe Verdi/Franz Liszt
Danza sacra e duetto finale da Aida S.436
Franz Liszt
Vallée D’Obermann (da “Années de Pèlerinage)
Camille Saint-Saëns (1835 – 1921)
Le Cygne (da “Carneval des Animaux)